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Via Foscolo, 4
Sant’Antioco (SU)
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Il MAB – Museo Archeologico Ferruccio Barreca conserva ed espone una raccolta di materiali archeologici rappresentativa della storia umana nell’isola di Sant’Antioco, che dalle più antiche frequentazioni neolitiche della piana agricola di Canai guida i visitatori, attraverso un percorso espositivo agevole e ben illustrato, fino alle testimonianze funerarie delle comunità cristiane ed ebraiche di epoca tardo antica.

Gran parte della collezione si riferisce alla materialità, alla vita quotidiana ed allo sviluppo dell’importante insediamento urbano fenicio, punico e romano di Sulky/Sulci, sorto sulle sponde orientali dell’isola all’inizio dell’VIII sec. a.C. Gli scavi archeologici nella grande necropoli punica di Is Pirixeddus e nell’area sacra del tofet, un santuario di origine fenicia in uso fino al I sec. a.C, sono i protagonisti nelle sale 2 e 3 del museo: i corredi ceramici, i gioielli, le urne cinerarie e le stele scolpite definiscono e danno forma alla sfuggente dimensione funeraria e rituale delle comunità fenicie e puniche sulcitane, aperte al Mediterraneo ma con un carattere distintivo spiccatamente locale.

La grande necropoli di Sant’Antioco è uno specchio della vita e della floridezza della città punica di Sulky tra il VI sec. e il III sec. a.C. Sono più di 50 le tombe sotterranee scavate nel settore di Is Pirixeddus, una piccola porzione del grande spazio necropolare che doveva coprire una superficie di circa 10 ettari. Le camere ipogee, alle quali si accedeva attraverso un corridoio scalinato, accoglievano numerose salme, forse i membri di una medesima famiglia, inumate entro bare di legno, spesso dipinte di rosso o decorate con figure umane intagliate in rilievo. L’impianto funerario rimase in uso anche durante il periodo romano: tombe alla cappuccina, tombe ad incinerazione o semplici fosse terragne costellavano la collina che dall’Acropoli raggiungeva, verso ovest, l’antico centro abitato. 

Nel percorso proposto si attraversano le camere di quattro tombe puniche rese tra loro comunicanti, dove è possibile ammirare copia di un arcosolio affrescato del IV secolo d.C.

 

Nella suggestiva altura di Sa guardia ‘e is pingiadas, immerse nella macchia mediterranea, si trovano le vestigia dell’area del tofet, un santuario fenicio a cielo aperto frequentato a partire dell’VIII sec. a.C., rimasto in uso durante tutto il periodo punico (VI-III a.C.) e fino il I sec. a.C., ben oltre la conquista romana della Sardegna del 238 a.C. Dedicato alla dea Tanit e al dio Baal Hammon, il tofet era un luogo sacro in cui venivano sepolte, con particolari riti, le spoglie cremate di bambini nati morti o deceduti in tenera età. A partire della tarda età fenicia il santuario si costellò di centinaia di cippi, betili semplici e stele in pietra configurate come piccole edicole templarie ornate con figure di donne suonando un tamburello, uomini con una stola sulla spalla sinistra o agnelli passanti, oggi esposti nel Museo Archeologico di Sant’Antioco.

L’area archeologica nota come Acropoli sorge sulla cima della collina di Is Pirixeddus, un alto luogo, non lontano del forte Su Pisu, che dominava sulla città antica e sull’antistante laguna. Le strutture e pavimenti in cocciopesto ornati con piccole tessere di colore bianco, scoperti negli anni Cinquanta dello scorso secolo e recentemente restaurati, rappresentano ciò che rimane di un tempio romano del tipo pseudo-periptero sine postico, sprovvisto del distintivo colonnato solo nella parte posteriore. Costruito nel corso dell’epoca romano-repubblicana (II sec. a.C.), lo spazio templare rimase in uso durante buona parte dell’età imperiale così come traspare dal materiale ceramico rinvenuto durante gli scavi archeologici. All’area sacra si accedeva attraverso una rampa che partiva dal vicino anfiteatro romano e raggiungeva, occludendo una parte della necropoli punica, la sommità del colle; questa strada monumentale conduceva fino il tempio ed era ornata dalle due grandi statue di leone risalenti alla tarda età fenicia e che attualmente sono esposte al Museo Archeologico di Sant’Antioco.

 

Il Museo Etnografico è ospitato all’interno di “Su magasinu ‘e su binu”, una tipica abitazione sulcitana del XVIII sec. dotata da un cortile porticato (sa lolla) dove venivano svolte le attività tipiche della tradizione contadina.

La vita d’un tempo di Sant’Antioco e ben rappresentata nella collezione del MEtS dove trovano posto, tra tante altre cose, gli attrezzi impiegati per la tessitura, la panificazione, la raccolta del latte, il lavoro della vite, la raccolta del grano o lavorazione della palma nana. Speciale interesse desta la sezione dedicata alla pinna nobilis, il più grande mollusco del Mediterraneo, dalla quale si estraeva il filamento che, lavorato sapientemente, dava origine al prezioso bisso o seta di mare.

La visita del Parco Archeologico di Sant’Antioco non può prescindere dal Forte Sabaudo. La visita della struttura permette, infatti, di conoscere la storia delle incursioni a Sant’Antioco a partire dal medioevo e sino al 1815.   Le avvincenti vicende storiche che caratterizzarono le ultime incursioni barbaresche in Sardegna hanno avuto come luogo di scontro proprio l’isola di Sant’Antioco.  La costruzione del forte “Su Pisu” avvenne tra il 1813 e il 1815 epoca in cui l’isola di Sant’Antioco era costantemente minacciata dalle incursioni provenienti dalle città nordafricane di Tunisi, Algeri e Tripoli, antiche reggenze dell’Impero Ottomano. Nel mese di ottobre del 1815 i corsari barbareschi provenienti da Tunisi presero d’assalto Sant’Antioco. La battaglia durò parecchie ore mettendo in risalto il coraggio e la determinazione dei soldati sardi.

Alle pendici occidentali del Forte Su Pisu si trova il rione conosciuto popolarmente come “Is Gruttas” (Le grotte) o “S' arruga de is Gruttas” (la via delle Grotte). Oggi in questa zona è possibile apprezzare il fascino del Villaggio Ipogeo, ovvero delle dimore di fortuna ricavate all’interno di antichi sepolcri ipogei punici occupati, a partire della seconda metà del XVIII sec., dalle famiglie più umili del paese conosciute come “is gruttaiusu” (gli abitanti delle grotte).

Queste modeste dimore attrezzate con tavoli imbanditi, arredi, forni e manufatti ottenuti dall’intreccio della palma nana raccontano una insolita storia di Sant’Antioco fatta di povertà e di sopravvivenza, di quotidianità e di fatica conclusa solo nello scorso secolo, quando agli inizi degli anni Settanta gli ultimi abitanti abbandonarono le grotte. 

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